Forse mi renderò impopolare, ma vi racconterò ugualmente questa storia.
Fu davvero una giornata memorabile quando, circa 25 anni orsono riuscii ad accaparrarmi, da un noto rivenditore della mia città, un componente hi fi facente parte di uno stock riveniente dal fallimento di un altro famoso rivenditore.
Già all’epoca il mercato era irto di imprevisti e difficoltà, purtroppo più di qualche commerciante del settore chiuse i battenti.
Si trattava del famosissimo braccio giapponese a doppio snodo che per molte notti mi era venuto in sogno, quando da giovane squattrinato divoravo le riviste di settore come pane quotidiano.
Immaginate con quanta apprensione e cura maniacale ebbi ad installarlo sul mio fidato Micro Seiki RX1500 e a corredarlo con un fonorivelatore Dynavector DV Karat Ruby anch’esso acquistato usato. Sembravano fatti l’uno per l’altro, e il fatto che appartenessero allo stesso brand, mi lasciava presagire ascolti indimenticabili.
Come sempre succede, i primi ascolti furono davvero entusiasmanti e per giunta l’entusiasmo era tale che rimanevo rapito a guardarlo durante il funzionamento, imbambolato da una così coinvolgente ed inusitata bellezza estetica.
Che dire poi del doppio sistema damping, il primo costituito da una bananina in lamiera di rame che scorreva lentamente all’interno di un traferro a doppio magnete, il secondo costituito da un pesetto oscillante collocato sotto il braccio principale.
Per godermi in toto la scena, come il maniaco con lo specchietto sulla punta della scarpa, mi ero munito di uno specchietto da dentista per osservarlo meglio. Proprio un gran bell’oggetto che mi suscitava moti di orgoglio e mi intrigava anche per le numerose regolazioni che mi facevano andare fiero dell’acquisto. Non ne parliamo poi dei tanti aggiusti per tarare definitivamente il VTA.
Inutile dire che all’epoca casa mia era luogo di pellegrinaggio per i numerosi appuntamenti con amici coinvolti dalla stessa passione.
Purtroppo, col trascorrere del tempo, il mio fidato Micro cominciò ad accusare un problema. A dirla tutta “non teneva la nota”, come dicono i musicisti.
Due controlli nell’arco di un anno e mezzo presso il distributore, il quale in ambedue i casi sostenne fosse tutto in ordine.
Fu il successivo periodo, di ripetuti non soddisfacenti ma pratici ascolti digitali, che mi fece trascurare il problema; anzi il braccio fu riposto addirittura nel dimenticatoio.
Più tardi fui preso da un nuovo impulso analogico per l’ascolto di un braccetto Audio Technica AT 1501 con fonorivelatore Denon DL103.
Come per incanto, il mio fidato Micro riprese a ruotare con la perfezione di sempre, tant’è che mi rivenne la voglia di riascoltare il braccetto dei sogni negli anni giovanili, dopo averlo montato su una ulteriore staffa Micro.
Orrore! il mio Micro riprese a stonare vistosamente, ma ciò non avveniva con il braccio Audio Technica che avevo modo di poter ascoltare simultaneamente.
Le pensai tutte, ma non riuscivo a venirne a capo, pensai perfino ad una intolleranza fra componenti, anche se non ne ero profondamente convinto.
Finalmente ebbi modo di sviscerare il problema, anche con l’aiuto di un programma di disegno CAD, che usavo per la progettazione di un nuovo braccio.
In tale circostanza sperimentai quanto fosse importante, durante l’ascolto di dischi minimamente ondulati (quale disco non lo è?), che lo snodo del braccio o meglio il segmento congiungente il baricentro dello snodo e lo stilo debba coincidere con il piano del disco.
Purtroppo il braccetto dei miei sogni era affetto da due problematiche che cominciai ad assimilare in tutta la loro gravità.
Il braccetto anteriore, quello dotato di snodo verticale, era eccessivamente corto per minimizzare la massa; a detta dei progettisti e recensori ciò era un bene, di questa circostanza ne ero profondamente consapevole.
Invece il suo snodo, quello che permetteva il movimento verticale del piccolo braccio, era posizionato ad un’altezza di circa 25 mm dal piano del disco.
Questo stato di cose, vale a dire il braccetto secondario eccessivamente corto e lo snodo eccessivamente alto rispetto alla superficie del disco, nel caso di dischi leggermente ondulati, dava origine ad un problema insormontabile.
Esse facevano in modo che, perdonerete il linguaggio da scuola guida, durante il passaggio su una cunetta, rispetto al piano medio del disco, lo stilo indietreggiasse mentre durante il passaggio su un dosso, al contrario, lo stilo sopravanzasse. Ciò, come si può intuire, si traduceva rispettivamente in una diminuzione e in un aumento repentino e momentaneo della velocità di tracciamento e di conseguenza in una diminuzione e in un aumento della frequenza al momento tracciata, anche se la rotazione del piatto era comprovatamente costante.
Quel braccio a malincuore non l’ho più ascoltato, anzi lo conservo da lunghi anni non riuscendo a separarmene. La sua problematica mi impediva e tuttora mi impedisce di ascoltarlo, avendo ancora nelle orecchie le storpiature musicali che fuoriuscivano dai miei sistemi Magneplanar quasi sempre impegnati nella riproduzione di brani di musica da camera e classica.
E pensare che una progettazione più attenta avrebbe potuto attenuare il problema. Qualcuno potrà obiettare ma, avendo studiato il funzionamento dei bracci fonografici rispetto i tre piani distinti, davanti a un siffatto progetto non posso neppure stare a sentire coloro che consigliano l’uso dell’anello spianadischi, oppure il sistema a vuoto d’aria per ovviare ad un errore progettuale così marchiano.
La circostanza peggiore è che nella seconda serie, attualmente prodotta, l’errore è stato ripetuto. Errare humanum est, perseverare autem diabolicum.
Buona musica a tutti.
leggi altro articolo di Adriano De Giovanni