Nel jazz, ci sono molti album in cui gli artisti di spessore compresenti, attivano una sottile competizione stilistica e ritmica in un gioco ad accaparrarsi l’occhio di bue.
È nell’anima del jazz il fraseggio alternato competitivo, anzi, ne costituisce la ricchezza.
Ma vi sono artisti di innata eleganza e sobrietà stilistica come Ahmad Jamal che sono in grado di sedurre giocando a nascondersi. Sanno farlo perché sanno scegliersi i compagni di viaggio parimenti discreti e sobri.
Ascoltare in vinile “At the Pershing but not for me”, è come catapultarsi in un jazz club degli anni ’50 fino a sentirne l’odore pungente dell’alcool e la puzza delle sigarette sulle giacche bisunte (del resto, le stesse poverette convivevano lungamente coi proprietari dacché era uso vestire eleganti perennemente e non solo delle feste comandate come oggi).
Ahmad Jamal e Israel Crosby, sembrano giocare a “non apparire” eppure …appaiono, statuari nella loro sicurezza tecnica, proprio nel rigore con cui sanno lasciare suonare gli spazi vuoti fra le loro accennate, eleganti incursioni sotto luce.
Gli avventori del Lounge del Pershing Hotel, rumoreggiano con rispetto neanche tanto devozionale; semplicemente parlottano a distanza senza arrecare frastuono, semmai arricchendo inconsapevolmente, di innumerevoli variabili ambientali utili a definire l’atmosfera, questo monumento fra gli album jazz.
Jamal si ritrae dalla luce e ricompare senza mai cercare il colpo di scena, appoggiandosi alla ritmica di Crosby che a sua volta sembra sicuro di non poter mai cadere nel vuoto, sostenuto dal rullante ossessivamente spazzolato da Vernell Fournier.
La dinamica del pianoforte è quasi per sottrazione e si apprezza più nelle pause che negli interventi, mai protagonistici, neanche quando le improvvise accelerazioni di Jamal indurrebbero ad un cambio di registro percussivo sui martelletti. Lui no; lui accelera e si prende la luce del palco mai alzando il registro dinamico.
Una carezza continua alla tastiera con moderato e mai troppo sostenuto uso del pedale. E intanto, dal fondo, rumoretti, parlottii, registratori fiscali (?) e persino un imprecisato “latrato” probabilmente ascrivibile a un bizzarro acoustic feedback anni ’50.
E intanto, le tazzine da caffè continuano a urtarsi senza mai rendersi fastidiose nell’economia complessiva della ripresa su nastro in bobina.
Registrazione meravigliosa (in mono), ben riprocessata elettronicamente in stereo da Dick Allen e Ron Malo.
Il brano “Poinciana” che apre la seconda facciata vale il biglietto aereo per Chicago, anche solo per andare ad annusare i divani dell’hotel su cui gli appassionati sedettero durante questa strepitosa live session.
Era il 16 Gennaio del 1958 e bastavano un paio di microfoni panoramici (persino uno), per fotografare un mondo.
Nulla a che vedere con le riprese multi-microfoniche moderne e i suoni iper-realistici di un mondo frenetico che ha bisogno di osservare tutto con la realtà aumentata pur di sottrarsi alla fatica dell’ascolto meditativo e meditato.
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